Una ragione contemplativa determina la volizione morale dell’arte di Antonio Saladino, volta alla produzione di un oggetto puro, incontaminato, realizzato in funzione di proponimento razionale inteso alla conquista e alla consapevolezza etica dell’operare artistico.

E’ un’opera che nasce nella solitudine e nella lontananza, e in forza del vis contemplativa che la determina approfondisce il linguaggio formale fino alla sintesi dei concetti, con forte referente esterno.

Così, la soluzione formale data alla ceramica bianca, granulosa, attiene alla rappresentazione più classica dell’arte greca. Si tratta di piccole metope inserite al centro dei valori ed evocanti colonne e templi greci, figure di uomini-eroi disegnate di profilo e impresse a rilievo sulla terracotta.

A prima vista l’impianto appare piuttosto banale e senza significato concettuale. Senonchè, non appena lo sforzo interpretativo si approfondisce, ci si accorge che le figure rappresentate, nelle diverse sfaccettature, non sono altro che l’autoritratto dell’artista.

Si evince chiaramente, per questa guisa, che l’artista si è totalmente identificato col mondo greco. Si è calato dentro la realtà di quell’universo mediante l’artificio dell’arte, che gli consente di afferrare un prototipo ideale perduto capace di attribuire maggior senso al suo lavoro.

 

Ovvero, più che un senso al suo operare artistico, emerge la volontà di una precisa collocazione all’interno della Storia, intesa come concetto di un tempo dilatato che non ha perduto il suo connotato essenziale, quello di essere storia dello spirito. La centralità del pensiero greco, recuperato attraverso l’arte contemporanea, cioè mediante l’operazione quotidiana di un soggetto tendente a elaborare un manufatto ideale offerto in comunicazione prospettiva a uomini contemporanei, emerge così in tutta la pienezza dell’edificio ideale che quel pensiero stesso seppe costruire.

Sicché l’opera di Saladino è doppiamente concettuale, poiché da un lato richiama il mondo greco sic e simpliciter, e dall’altro rimanda il quotidiano, troppo evidentemente in crisi epistemologica, a rivisitare un’idea di purezza del pensiero incontaminata ed espansa verso tutte le direzioni del sapere.

Dunque l’autoritratto manifesta in pieno la volontà dell’artista, che si “racconta” attraverso l’opera e si dichiara scopertamente come soggetto contemplativo, quasi monacale, tutto rivolto verso un bisogno di espansione spirituale, permeato di luminosità e di luce.

 

Da qui l’inserimento di piccoli cocci di vetro, colorati, trasparenti, irradianti fluorescenze ed effetti luminosi recanti palpitanti energie di calore. E da ciò, io penso, la necessità di presentare questi lavori al buio, fuori dalla realtà quotidiana e completamenti staccati, in condizioni di atemporalità e isolati nella dimensione del silenzio, che è quella dello spirito. Credo anche che da ciò provenga la rappresentazione dei templi come espressione di una religiosità particolare praticata nella vita quotidiana, come significato di quella vis contemplativa che giustifica e legittima la vita pratica dell’artista.

Ecco da dove proviene quel bianco, l’immacolata purezza di un colore che non può che ripetere i tratti distintivi di un’essenza propriamente spirituale, in tensione astratta e conoscitiva di pieghe profonde che nessuna verità può svelare, quelle dell’anima.

Considerazioni analoghe meritano le aperture e i varchi praticati da Antonio Saladino sulla ceramica.

Il desiderio di attraversare l’epidermide-frontiera della ceramica e aprire un varco al suo interno per superarne il confine, oltre il quale luminosi cristalli colorati si offrono in vibratile trasparenza, evoca in certa misura palpitanti concetti spaziali. Anche lì, per esempio, la penetrazione era impressa su una superficie grezze e monocroma; tuttavia la sedimentazione del taglio era l’intimo travaglio di una ferita da penetrare con l’energia di un afflusso carnale violento e gestuale. Qui la sostanza da penetrare non è la dura materia, ma l’epidermide morbida e trasparente della storia, presente e passata, la cui osmosi è resa dai cristalli in flusso della coscienza. E così, come negli ultimi lavori di un Fontana, i c.d. Teatrini, gli involucri dei tagli o dei buchi tralucevano di immagini, in questi lavori di Saladino, gli elementi figurali alludono a un teatro concreto nello spazio della storia, astratto e concettuale sul piano delle idee.

 

Sicché dalle superfici ruvide, tattili, vibranti di una sostanza materica che si rigenera, si plasma e si consuma lungo i percorsi residuali della storia, l’argilla, emerge un Uomo la cui sostanza non è mutata. Attraverso l’apertura praticata in superficie Antonio Saladino “sfonda” l’epidermide-coscienza e apre un varco nella memoria fino a trovare una precisa collocazione storica e identità culturale.

In questo caso l’attraversamento della materia è ricordo di un percorso artistico già compiuto e al tempo stesso strumento di specificazione dell’ic et nunc, di un’individualità cosciente che affiora sulle superfici del presente mediante un viaggio che si compie nel tempo, in vista del futuro e nel recupero della memoria storica.

Ovvero il circolo si chiude alla fine di un viaggio che può portare solo alla conoscenza di sé. Ma si tratta di un’Odissea dell’Arte, che dovrà esplicitarsi attraverso l’arte, e dunque, entrare in contatto col mondo. Un’Odissea per la quale occorrerà, alla fine, perdere i connotati individuali e sconfinare nell’universale.

Direi, per concludere, che l’opera di Saladino rappresenta l’istanza di un uomo nuovo che s’interroga e pone domande in relazione alla contemplazione di un principio di verità, trascendente o immanente, che anche l’arte ha il dovere di ricercare.

 

In questo senso il viaggio dell’artista non è finito. Finirà quando il novello “Ulisse” – coscienza dell’uomo che naviga verso l’avvenire – si ricongiungerà a quello greco e insieme riprenderanno a viaggiare nel mondo.

L’opera di Antonio Saladino, così appartata, solitaria e lontana, favorisce l’insorgere di un tale orientamento. Pur rimanendo concettuale propone un’arte “reale”, nel senso della specificità di un “luogo” in cui l’opera è concepita, centro concreto di concrete applicazioni derivanti da un’impalcatura puramente astratta.

 

Gianfranco Labrosciano